Musicaletter #8
Ciao,
Nel mio piccolo cerco di rispettare i desideri finali di Prince.
Di ricordare a tutti chi fu Prince, in cosa credette e come vide l’arte espressa con la sua vita. A volte lo faccio anche contro le mie convinzioni. Un caso emblematico è il passo della Bibbia (tradotta dai Testimoni di Geova) che ho postato qualche giorno fa. Sono ateo, ma questo non mi vieta di celebrare la produzione letteraria di altri esseri umani, anche se sono convinto che 1. sia una storia inventata 2. sia una storia senza alcun fondamento e 3. non sia un libro utile per trarre degli insegnamenti quotidiani o scientifici (figurarsi).
Ma Prince non la pensava così. Ed è per questo che l’ho pubblicata.
Prince, com’è noto, era Tdg dalla fine degli anni novanta, e, in tutta sincerità, non riesco a pensare alla sua morte senza pensare alle sue disgraziate scelte in probabile connessione con la religione. Eppure se devo presentare Prince a un(a) giovane che non lo conosce devo parlare dell’influenza che la religione ha avuto su di lui. E dell’evoluzione (o involuzione?) del rapporto tra Prince e la religione.
O parlare del Fenatnyl, l’oppioide antidolorifico che l’avrebbe ucciso. Forse a causa di un aumento delle dosi per affrontare i dolori della vita o delle ore trascorse sul palco. Se poco prima di morire, Prince (o qualcuno dei suoi) chiamò un dottore esperto nel trattamento di questi abusi questo significa che un segnale che qualcosa non andava, oltre al problema avvenuto sull’aereo di ritorno dal concerto, l’avevano avuto. Ricordo che mi trovai ad ascoltare il podcast di un noto megafono di Prince che continuava a ripetere al microfono: “non preoccupatevi, è solo una banale influenza! L’ho detto anche a Questlove!” La voce che Prince non stesse bene già girava tra gli amici e i colleghi; infatti quando Bobby Z scrive un messaggio a Wendy le dice solo: è morto. È un mistero perché lui abbia detto “risparmiate le vostre preghiere per un paio di giorni” o è un caso che il giorno della sua morte corrisponda con il giorno di 31 anni prima quando aveva registrato Sometimes it snows in April?
Non c’è bisogno di aggiungere altro.
Benché l’operazione Originals, così come quella di Piano and Microphone 1983, in fin dei conti mi stia piacendo, ho la netta sensazione che si stia presentando un Prince troppo lontano da noi, dal 2019 e dalla quotidianità che vivevamo con lui. Riproporre brani di 35 anni fa dona nuova linfa ai tour dI Sheila, delle Bangles o dei Time. Ma Prince non era più quello di Purple Rain da molto tempo. Non era più quello di Vanity. Non lavorava più con i Revolution e Jill Jones non era più tra i suoi capelli quando lui era giù di morale. Ancora prima di finire il tour di Purple Rain lui se ne era già stufato di tutto quel cinema. I Revolution mi fanno tenerezza quando insistono con la storia che c’era un progetto per tornare in tour con Prince. Non nego che ne abbiano parlato, forse per aiutare economicamente alcuni membri della band, ma il Prince degli ultimi anni era ben solido in altre collaborazioni. Ora sono tutti una famiglia, buon per loro, ma Prince li separava per bene.
L’evoluzione degli appassionati di musica parte con l’identificazione del pubblico giovane negli anni sessanta, che apprezzava il contenuto; noi della generazione X volevamo trovare anche piacere nel contenente. I musicisti dovevano essere anche belli, perché volevi una tua tribù a cui appartenere (vero, MTV?). I nostri fratelli più grandi, quei coglioni del baby boom, guardavano con sospetto tutto quel edonismo ed egocentrismo che sembrava spegnersi con il lip-syncing (il famigerato playback che dominava la televisione di Cecchetto, baudiana e delle Goggi). Oggi, però, le cantanti hanno i baffi e non ci stupiscono più. Gli interpreti si formano in televisione davanti a trasmissioni senza soluzione di continuità e poi li confondi tra di loro. Non sai più chi è quello che pare sia uscito dalla Rinascente con dei vestiti ma senza togliere l’antitaccheggio. Sai solo che era di un talent, ma li confondi. E cantano tutti da dio, anche grazie a badilate di autotune.
È in questo mercato che (il ricordo di) Prince deve vincere la concorrenza. Fino a quando non ne farai un’esperienza da vivere, condividere e ricordare la sua musica sarà solo per noi quaranta cinquantenni, ancora in caccia di una tribù a cui appartenere. E se dal vivo, ahimè, non potremmo mai più vederlo, allora un film, una mostra, un evento costruito per la plebe (non una celebrazione in Alaska a mille dollari al biglietto+l’aereo) aiuterà a mantenere vivo il ricordo.
In fondo, parliamo sempre dello stesso argomento. Noi che vorremmo Prince sul palco, senza alcun filtro della famiglia, della banca, di Larry Graham, di Kirk J. o dei Revolution.
Rivogliamo lui.
Il tour di Lovesexy, partendo dall’organizzazione iniziale dentro Paisley Park fino alle tappe europee o giapponesi. Che strumenti suonava Dr. Fink? Chi era la stilista? Ciò che lui voleva raccontare in quel tour andava oltre le due ore di spettacolo. L’esperienza del concerto partiva con la Thunderbird erotica del papà, fino alla redenzione di Anna Stesia. Le poesie di Ingrid e l’assolo dei violini synth di Glam Slam. Abbiamo bisogno di un racconto unico, compatto, coerente, che sfoci nel climax musicale.
Prima che sia troppo tardi, è questo ciò che dovrebbero pubblicare quelli seduti sulle poltrone di Prince Estate o l’archivista capo Howe, o Jay Z e Troy Carter.
Grazie
Simone (scrivimi@italianjam.net)